Sull’origine della lingua giapponese, così come sull’origine della stessa popolazione giapponese, sono state fatte diverse ipotesi; gli antropologi suppongono sia il risultato di mescolanze tra i flussi migratori dall’asia settentrionale, giunti attraverso la penisola coreana, con le popolazioni native dell’arcipelago.
Anche se non si sono conservate tracce scritte dei passaggi avvenuti, i nessi della lingua giapponese con alcune famiglie linguistiche continentali, cioè con il gruppo delle lingue altaiche e con il coreano sono indiscutibili. Tale somiglianza sembra però limitarsi alla morfologia e alla sintassi ma non al lessico.
Al contrario del coreano infatti il sistema fonologico del giapponese è fondato su sillabe “aperte” – vocale isolata o consonante più vocale – con le uniche eccezioni delle sillabe chiuse dal suono n e del raddoppio di una stessa consonante e non sono presenti raggruppamenti consonantici.
Su questo piano il giapponese richiama le lingue “meridionali” vale a dire il gruppo maleo-polinesiano (detto anche austronesiano) e le lingue dravidiche (oggi sopravvissute solo nell’India meridionale e nello Sri Lanka).
Indubbiamente differisce dal cinese del quale però adottò la scrittura. Il cinese è monosillabico (oggi prevalentemente bisillabico), tonale, isolante e fondato sintatticamente, come l’italiano e la maggior parte delle lingue occidentali, sullo schema SVO (soggetto – verbo – oggetto). Il giapponese è invece polisillabico, atonale, agglutinante (cioè tendente alla formazione di parole complesse) e sintatticamente fondato sullo schema SOV (soggetto – oggetto – verbo) come, ad esempio, il coreano o il turco.
Ma veniamo all’aspetto forse più affascinante di questa lingua: la scrittura.
Il giapponese usa, per la scrittura, una combinazione di due set di caratteri: i kana che comprendono l’alfabeto sillabico hiragana e l’alfabeto sillabico katakana ed i kanji: gli ideogrammi di origine cinese.
L’hiragana viene utilizzato per scrivere parole di origine giapponese, particelle e desinenze dei verbi. Viene inoltre usato dai bambini, che ancora non conoscono gli ideogrammi, per leggere e scrivere.
HIRAGANA
Il katakana viene usato per trascrivere le parole straniere. Da specificare però che la trascrizione di una parola straniera in katakana in alcuni casi non è totalmente fedele alla pronuncia della lingua originaria, infatti alcuni suoni non esistono nella lingua giapponese.
KATAKANA
I kanji sono gli ideogrammi che il Giappone ha importato dalla Cina tra il V° e VI° secolo dopo Cristo.
Da allora il Giappone ha personalizzato e inventato nuovi ideogrammi: attualmente se ne contano circa 50.000, ma la conoscenza di circa 2.000 kanji permette di leggere agevolmente quotidiani o riviste. Un giapponese, nel corso dell’intero ciclo scolastico, impara circa 3000 kanji.
Oltre a questi set di caratteri è possibile romanizzare il giapponese, cioè trascriverlo usando i caratteri latini (rōmaji). Esistono due sistemi principali di trascrizione rōmaji: il sistema Hepburn (hebonshiki) ed il sistema Kunrei (kunreishiki).
In questo corso useremo il sistema Hepburn, secondo il quale le vocali si pronunciano come in italiano e le consonanti come in inglese.
Ci sono solo pochi punti cui fare attenzione, in particolare:
- tutte le h sono aspirate: ha, hi, he, ho, hyo…
- in giapponese non esiste la l e la r come in italiano, ma esiste un unico suono intermedio, trascritto sempre come r … è una specie di r dolce.
- la s è sempre sorda, anche tra vocali e si pronuncia come in sasso.
- la z è sempre sonora e si pronuncia come la s di rosa. Tsu corrisponde ad una z sorda seguita da una u come in zucca.
- gi e ge si pronunciano come ghi e ghe in italiano.
- la j corrisponde invece alla g dolce; quindi ja, ji, ju, je, jo corrisponderanno a gia, gi, giu, ge, gio.
- ch seguita da vocale equivale a c dolce: chi, cha, chu, che, cho corrisponde all’italiano ci, cia, ciu, ce, cio.
- sh in shi, sha, shu, she, sho equivale all’italiano sci, scia, sciu, scie, scio.
- la u non presenta problemi se posta ad inizio parola. In mezzo a certe parole invece sparisce completamente nella pronuncia. Quando è finale si pronuncia come in aru e iku ma sparisce in desu, masu, ecc…
- anche la i sparisce in certe parole come shita, deshita ecc..
- il macron (“¯”) sopra le vocali indica vocali lunghe (si pronunciano come se fossero doppie); ad esempio Tōkyō si pronuncia Tookioo (per conoscenza, anche se in questo corso useremo il macron per indicare le vocali lunghe, sappiate che un altro modo per indicare le vocali allungate è quello di scriverle doppie, ad eccezione della o alla quale si fa’ seguire una u, ad esempio Toukyou);
E questo è tutto quel che ci serve per quanto riguarda la pronuncia.
In questo corso seguiremo un approccio intuitivo … affronteremo la lingua come fanno i bambini, in maniera naturale … o almeno ci proveremo …
Nonostante questa premessa, per soddisfare un po’ di sana curiosità introduciamo qualche informazione, seppur superficiale e incompleta, sulla grammatica lasciando alla prossima lezione il compito di chiarire meglio i concetti che seguono.
Abbiamo già scritto che la lingua giapponese ha una struttura del tipo SOV, vale a dire soggetto, oggetto, verbo.
Quindi se voglio dire: Io mangio una mela in giapponese strutturerò la frase in questo modo: Io una mela mangio cioè Watashi (io) wa ringo (mela) o tabemasu (mangio).
I due termini wa e o sono rispettivamente le particelle che indicano che la parola che le precede è rispettivamente l’argomento della frase ed il complemento oggetto.
Le particelle sono sempre posposte (messe dopo) al nome che marcano ed indicano la funzione logica che le parti del discorso svolgono all’interno della frase. Ad esempio:
Terebi o mita = “ho guardato la TV” dove la particella o indica che terebi (TV) è il complemento oggetto.
Haha to = “con mia madre”, to indica che sono in compagnia di haha (mia madre).
Roma e ikimasu = “vado a Roma” dove e indica moto verso luogo.
e così via …
I nomi ed i pronomi giapponesi sono del tutto invariabili, non hanno né genere né numero e non si declinano neppure in base al caso; non sono inoltre preceduti da articoli. Quindi, ad esempio 猫 (in hiragana: ねこ), che si legge neko può significare: il gatto, un gatto, i gatti, dei gatti, alcuni gatti, la gatta, una gatta, delle gatte … e così via … sarà il contesto della frase a farci capire il giusto significato.
Quando è assolutamente necessario per la chiarezza della frase, è possibile indicare il genere di un essere vivente o il plurale di un nome o di un pronome con l’utilizzo di prefissi o suffissi, di espressioni aggettivali o, per alcuni nomi, con il raddoppio.
Ad esempio hito significa persona, se è importante che il mio interlocutore capisca immediatamente che sto parlando, ad esempio, di una donna userò il termine onna no hito, se parlo di più persone e voglio marcare questo fatto in modo che il mio interlocutore lo capisca subito userò il termine hitotachi … ma, ripeto, nella maggior parte dei casi si lascia al contesto della frase il compito di rendere il giusto significato del termine.
La coniugazione dei verbi giapponesi non è influenzata dal numero e dal genere; in giapponese esistono solo due tempi: il passato e il “non passato”.
Ma adesso basta con la teoria … partiamo!
Usando il rōmaji, visto che ancora non conosciamo né i kanji né l’hiragana, impariamo a presentarci seguendo il dialogo tra Claudio, turista italiano a Tōkyō, una sua conoscente, Kimiko, ed il signor Tanaka, un amico di Kimiko da lei presentatogli.
DIALOGO
Claudio |
Konnichiwa! |
Buongiorno! |
Kimiko |
Konnichiwa! |
Buongiorno! |
Tanaka |
Hajimemashite! |
Piacere! |
Claudio |
Hajimemashite! |
Piacere! |
Tanaka |
Anata wa amerikajin desu ka. |
Lei è americano? |
Claudio |
Iie, watashi wa amerikajin dewa arimasen. Itariajin desu. |
No, io non sono americano. Sono italiano. |
ANALISI SUL DIALOGO
Solo per questa prima lezione, al fine di facilitare la lettura del rōmaji, troverete fra parentesi la corretta pronuncia.
Konnichiwa
Konnichiwa (pron.: connici ua) significa buongiorno.
Al mattino il saluto è: ohayō gozaimasu (pron.: ohaioo gozaimas) o più semplicemente ohayō se ci si rivolge ai propri familiari o amici. Il corrispondente del nostro buona sera è konban wa (pron.: conban ua).
La traduzione del termine buonanotte è invece oyasuminasai (si pronuncia così) ma, al contrario di quanto accade in italiano, viene utilizzato quasi esclusivamente quando si sta andando a dormire.
Claudio-san, kochira wa watashi no tomodachi desu. Tanaka Hiroo-san desu
Claudio-san potremmo tradurlo come signor Claudio. Il termine san, sempre posposto, viene usato indifferentemente per uomini e donne sia dopo il cognome sia dopo il nome (se parlate con una persona che conoscete bene). In giapponese chiamare una persona senza il termine san (o altro titolo, se del caso) dopo il nome (o dopo il cognome), a meno che non sia un componente della propria famiglia o un amico molto intimo, non è considerato cortese. Ai nomi dei bambini si pospone invece il termine chan (pronuncia: cian).
Kochira wa (pron.: cocira ua): la particella wa indica che l’argomento della frase è ciò che la precede, cioè kochira che è un termine ossequioso per dire “questa persona”.
Watashi no tomodachi desu (pron.: uatasci no tomodaci des): watashi significa io, tomodachi significa amico. Watashi seguito dalla particella “no” significa letteralmente “di me” quindi la frase è “l’amico di me” quindi “il mio amico”. Desu è traducibile con “è”.
Tanaka Hiroo-san desu = è il signor Hiroo Tanaka. Da notare che i giapponesi indicano sempre prima il cognome (in questo caso Tanaka) e dopo il nome (Hiroo); sanno comunque che in occidente la prassi è opposta quindi si aspettano che un occidentale si presenti indicando prima il nome … come vedrete farà Claudio.
Hajimemashite! (Watashi wa) Tanaka Hiroo desu. Dōzo yoroshiku.
Hajimemashite (pron.: hagimemasc’te): piacere.
(Watashi wa) Tanaka Hiroo desu. watashi wa (io) può tranquillamente essere omesso, basta infatti dire Tanaka Hiroo desu, cioè sono Hiroo Tanaka. A tal proposito si noti che quando si parla di sé stessi non si usa mai il “san” o altri titoli.
Dōzo yoroshiku (pron.: dooso ioroscicu): lieto di conoscerla.
Hajimemashite! (Watashi wa) Claudio Bianchi desu. Dōzo yoroshiku.
Come sopra, con il richiamo al fatto che Claudio, al contrario di quanto fatto dal Signor Tanaka si presenta anteponendo il nome al cognome (all’occidentale).
Anata wa Amerikajin desu ka.
Anata wa (pron.: anata ua) – anata significa tu/lei, mentre wa è, come già detto la particella che identifica l’argomento della frase. Amerikajin desu ka (pron.: americagin des ca) – Amerikajin, che significa americano è formato da Amerika (l’America appunto) e jin che significa persona.
Desu lo conosciamo già e il ka finale è l’indicatore che la frase è una domanda.
Da ciò introduciamo il fatto che, in giapponese, le domande hanno la stessa forma della frase affermativa con l’aggiunta del marcatore ka in fondo; ad esempio:
Anata wa nihonjin desu = Tu sei giapponese (affermazione)
Anata wa nihonjin desu ka = Sei giapponese? (domanda)
Da notare che con il ka non si usa normalmente il punto interrogativo.
Iie, watashi wa amerikajin dewa arimasen. Itariajin desu.
Iie, watashi wa amerikajin dewa arimasen (pron.: iee, uatashi ua americagin deua arimasen) – iie significa no mentre dewa arimasen è il negativo di desu.
Itariajin desu (pron.: itariagin des) significa, come avrete sicuramente intuito, “sono italiano”.
Abbiamo appena provato ad esprimerci in giapponese grazie al solo uso del rōmaji.
Tentare però di imparare il giapponese senza affrontare lo studio di hiragana, katakana e kanji vanificherebbe gli sforzi … e tra l’altro non sarebbe possibile leggere nulla!
Affrontiamo questo viaggio introducendo il sillabario hiragana.
Affrontiamo questo viaggio introducendo il sillabario hiragana.
In questa prima lezione impareremo come scrivere le cinque vocali: あ (a), い (i), う (u), え (e) ed お (o).
Esiste una sequenza precisa da seguire per tracciare i tratti che compongono le sillabe hiragana e katakana e, naturalmente, i kanji.
Le regole da seguire sono le seguenti:
- prima l’orizzontale poi il verticale
- da sinistra a destra
- dall’alto verso il basso
- prima la parte centrale e poi la laterale
- prima l’esterno e poi l’interno
Complicato?
No, prendete carta e penna e provate, con l’aiuto dello schema sottoriportato, a scrivere le cinque vocali.
Ora potete scrivere già alcune parole in hiragana (tra parentesi, anche se non dovrebbe essercene bisogno, indico la pronuncia):
あい (ai) = amore
いい (ii) = buono
いえ (ie) = casa
いいえ (iie) = no
おい (oi) = nipote (di zii).
Naturalmente stiamo usando un alfabeto sillabico per scrivere i suoni che compongono le parole proprio come fanno i bambini giapponesi prima di imparare gli ideogrammi.
Un’ultima precisazione: il giapponese può essere scritto verticalmente (dall’alto in basso partendo da destra) o orizzontalmente; in quest’ultimo caso, come nelle lingue europee, da sinistra a destra.
Quindi i libri scritti in verticale inizieranno da quella che per noi sarebbe l’ultima pagina, quelli scritti in orizzontale seguono lo schema a noi familiare.
Bene, per questa prima lezione è tutto … alla prossima!