Politica di assimilazione ad Okinawa: promozione, resistenza e ricostruzione – tratta da JPRI Occasional Paper N. 8 (Ottobre 1996)
di Steve Rabson
traduzione di Marco Forti
La frase giapponese doka seisaku è definita nei dizionari come la politica attraverso la quale una nazione si sforza di estendere il proprio stile di vita e le proprie ideologie alle persone che vivono nelle proprie colonie. Tra i Giapponesi e coloro che studiano il Giappone, il concetto di doka seisaku è spesso associato al ruolo coloniale nipponico in Corea tra il 1910 ed il 1945. Espresso nella sua forma più repressiva, si trattò in realtà di assimilazione forzata (kyoseiteki doka). Nell’ultimo decennio di quel periodo si arrivò all’eliminazione dello studio della lingua coreana nelle scuole e all’uso obbligatorio del giapponese, alla chiusura di tutti i giornali in lingua coreana, all’obbligo di partecipare alle cerimonie shintoiste e alla nota “ordinanza sui nomi” che imponeva a tutti i Coreani il cambio di nome e cognome in aderenza alla relativa pronuncia giapponese. Alcuni Coreani collaborarono con l’amministrazione coloniale, lavorando ai livelli più bassi della polizia e delle altre forze dell’ordine incaricate di far rispettare tali editti. Dall’altro lato c’era invece chi opponeva resistenza con proteste contro specifiche scelte politiche e soprattutto contro quei Coreani che stavano collaborando al cambiamento imposto.
Il termine doka seisaku è stato associato anche all’incorporazione di Okinawa, nel corso del periodo Meiji, quando coercizione, cooperazione e resistenza caratterizzarono la politica di assimilazione nipponica ed i relativi effetti. Ma per quanto Okinawa, nel corso del periodo Meiji, venisse talvolta ricordata come “la prima vittima dell’imperialismo giapponese” (suggerendo che fosse stata acquisita e governata più come una colonia che come una prefettura), nell’arcipelago le circostanze furono ben diverse da quelle verificatesi in Corea.
Contatti con la Cina
Per ben comprendere come si svilupparono tali congiunture, è di aiuto un’analisi retrospettiva. Trattandosi di eventi risalenti alla preistoria è naturale che rimangano in essere alcune congetture quando si analizzano le precise origini delle prime migrazioni che popolarono l’arcipelago delle Ryukyu, di cui l’isola maggiore è ora chiamata Okinawa. È noto l’arrivo, nel corso dei secoli, di popolazioni dalla Cina meridionale, dal Sud Est Asiatico, dalla Polinesia e da quella che oggi è la madrepatria giapponese. Le caratteristiche fisiche di molti abitanti di Okinawa differiscono totalmente da quelle dei Giapponesi, altri sono del tutto indistinguibili e altri ancora mostrano solo alcune variazioni significative. Le origini geografiche degli abitanti di Okinawa sono state ipotizzate anche analizzando i metodi arcaici di coltivazione del riso, della cottura dei cibi e della navigazione. Indizi sulle origini culturali arcaiche risultano anche dalla musica e dalle danze tradizionali, dalle feste popolari, dalle osservanze religiose e dal regime alimentare. Ciononostante, vista la presenza diffusa di abilità e di oggetti di importazione, appare evidente che vi siano stati adattamenti che rendono difficile localizzarne precisamente le origini.
L’origine maggiormente citata di molti aspetti della cultura di Okinawa è la Cina, in misura tale che in Giappone è diffusa l’idea che gli Okinawensi siano in qualche modo più Cinesi che Giapponesi. Per certo ci sono influenze cinesi nel regime alimentare, nell’architettura e nel metodo di sepoltura che non si riscontrano in Giappone, quantomeno in epoche recenti. Poiché la Cina è stata la fonte primaria per quanto riguarda l’importazione di cultura in Giappone, alcune aspetti che oggi vengono ritenuti totalmente giapponesi provengono in realtà dalla Cina attraverso Okinawa. Questi comprendono alcune parole, nomi di luoghi, stili di lavorazione della ceramica e rituali religiosi.
L’influenza cinese ad Okinawa era anche politica. Le prime organizzazioni politiche ad Okinawa erano gestite dai signori locali, chiamati aji o anji. Dopo anni di rivalità, guerre e consolidamenti, nel dodicesimo secolo la situazione si stabilizzò con la creazione di tre regni separati: Nanzan, Chuzan e Hokuzan (rispettivamente a sud, centro e nord).
Nel 1372 gli emissari provenienti dalla Corte dei Ming esercitarono pressioni sul re Satto di Chuzan affinché istituisse una relazione tributaria con la Cina, alla stregua di quanto già fatto da altri stati dell’Asia orientale.
Nel 1429, quando i tre regni vennero unificati sotto la guida dell’originario regno di Chuzan, la relazione tributaria con la Cina si rivelò assolutamente non minacciosa e, anzi, molto redditizia sia culturalmente che economicamente. Il regno delle Ryukyu (Liu-ch’iu in cinese) era tenuto ad inviare emissari alla corte dei Ming ma la Cina non interferiva nella politica e nelle attività commerciali, al contrario di quello che, sempre più frequentemente, fece il Giappone a partire dall’inizio del diciassettesimo secolo.
La relazione tra la Cina e l’arcipelago delle Ryukyu ebbe effetti profondi e duraturi. A partire dal quattordicesimo secolo vennero inviati studenti a Pechino, in qualità di ryugakusei (studenti all’estero). I dignitari del regno imparavano la lingua cinese, la letteratura, le arti e la filosofia da insegnanti cinesi che vivevano, come anche artigiani e commercianti, in una zona particolare di Naha chiamata Kume, ancora oggi apprezzata meta turistica. L’architettura degli edifici pubblici e privati si basava sui modelli cinesi, così come i gradi dei dignitari ed i rituali di corte, una tendenza osservabile anche nel Giappone dell’epoca Nara. Inoltre, come in Giappone, il Confucianesimo divenne molto influente nelle Ryukyu, dove il culto degli antenati lo rendeva particolarmente adattabile. Vennero adottate leggi cinesi, come quelle che bandivano le armi da fuoco e regolavano i possedimenti terrieri, così come vennero acquisite abitudini alimentari cinesi, in particolare l’uso dei bastoncini per il cibo e l’allevamento del bestiame. L’allevamento di maiali e l’abitudine di mangiarne le carni perdura ancora oggi ed è molto più diffuso che nel resto del Giappone, cosa che ha contribuito a far considerare l’isola di Okinawa come cinese o “straniera”.
Il periodo compreso tra il 1400 ed il 1500 è spesso considerato l’epoca d’oro del regno delle Ryukyu. Una marina mercantile molto sviluppata intratteneva un commercio internazionale fiorente con Cina, Giappone, Corea e Sud Est Asiatico. Le esportazioni più redditizie riguardavano tessuti, tinture, smalti, ventagli, sete colorate, carta, porcellane, oro, rame, cereali, frutta e verdura. I vessilli e gli equipaggi delle Ryukyu effettuavano anche trasferimenti tra diverse nazioni, come le navi mercantili greche e panamensi di oggi.
I problemi in quel periodo riguardavano più che altro le tangenti che i funzionari doganali cinesi estorcevano ai commercianti delle Ryukyu, anche se, nel complesso, i rapporti tra Okinawa e la Cina erano reciprocamente vantaggiosi.
Le relazioni tra il Giappone e la Cina, al contrario, si deteriorarono progressivamente tra il quindicesimo ed il sedicesimo secolo. Le flotte di pirati giapponesi (wako) conducevano raid devastanti contro la Cina e, nel 1415, lo shogunato Ashikaga seguì ironicamente le orme della Cina, dichiarando il regno delle Ryukyu quale stato tributario del Giappone.
Si arrivò alla crisi nel 1590 quando Toyotomi Hideyoshi ordinò al Re Sho Nei di fornire truppe e sostentamento a Hideyoshi per la prevista invasione della Cina attraverso la Corea. Dopo un’iniziale esitazione il re inviò con riluttanza cibo alle truppe giapponesi che però naufragarono in Corea ed infine si ritirarono dopo la morte di Hideyoshi, nel 1598.
Sebbene avesse evitato di essere immischiato in una guerra tra i vicini, il regno delle Ryukyu divenne oggetto di conflitto nella successione di Hideyoshi. Tokugawa Ieyasu poco dopo aver vinto la decisiva battaglia di Sekigahara, nel 1600, assegnò Okinawa ai possedimenti di Shimazu Iehisa, daimyo della provincia di Satsuma, posta a sud dell’isola meridionale di Kyushu. A Shimazu venne conferito il titolo di “Signore delle isole del sud” ed egli, nel 1609, inviò un esercito di samurai ad affermare il proprio dominio su Okinawa. Per duecentocinquant’anni i Satsuma imposero severe restrizioni e pesanti tasse ma consentirono al regno delle Ryukyu di mantenere un’indipendenza di facciata e continuare la relazione tributaria con la Cina, in modo che il daimyo Shimazu potesse trarre profitto dal commercio fiorente. In questo modo i Satsuma poterono aggirare la politica di chiusura (sakoku) imposta dallo shogunato Tokugawa a partire dal 1630. A dispetto delle politiche repressive e approfittatrici dei Satsuma, i contatti tra le culture okinawense e giapponese arricchirono entrambe le parti. I divertimenti popolari di Edo ed Osaka divennero di moda nel regno delle Ryukyu ed il teatro tradizionale kumi-odori acquisì caratteristiche del no e del kabuki, così come il mondo del teatro giapponese accolse i costumi, le danze e le canzoni folkloristiche di Okinawa.
Il periodo Meiji
Al contrario di quel che accadde sotto il dominio del daimyo Shimazu, che aveva tentato di garantire un’apparente indipendenza delle Ryukyu, il governo Meiji perseguì una campagna per consolidare ed estendere la propria autorità. Dai primi anni del 1870 il Giappone cercò di eliminare tutte le vestigi politiche del regno, sia reali che simboliche. Il governo trasformò Okinawa in una prefettura, evitando che il persistere del regno costituisse un problema di sicurezza. Quale territorio non assimilato alla frontiera meridionale del Giappone, poteva essere utilizzato come punto di blocco per forze esterne che avrebbero potuto costituire una minaccia alla nazione, come già dimostrato dal Commodoro Perry e dalla sua flotta di “navi nere” che raggiunsero, non invitate, le coste di Naha nel 1853, mentre si dirigevano alla baia di Edo.
La politica di assimilazione di Tokyo suscitò le proteste non solo della popolazione del precedente regno delle Ryukyu ma anche della Cina che tentava di far valere le sue ragioni su quello che era un suo stato tributario. Gli aristocratici okinawensi, temendo l’annessione al Giappone, chiesero al governo cinese Ch’ing di intercedere e al precedente presidente degli Stati Uniti, Ulysses S. Grant, di farsi mediatore nella disputa, nel corso della sua visita in Asia orientale del 1879. Il governo Meiji aveva già sfruttato il massacro di alcuni marinai delle Ryukyu, ad opera di aborigeni taiwanesi nel 1871, quale pretesto diplomatico per dichiarare gli abitanti delle Ryukyu “soggetti giapponesi” bisognosi di protezione ed aveva organizzato una spedizione punitiva a Formosa nel 1873. Tale spedizione era composta prevalentemente da samurai di Kyushu, guidati dal fratello di Saigo Takamori ed era stata organizzata anche per distrarli dall’attaccare lo stesso governo Meiji, come in realtà fecero quattro anni dopo, nel corso della cosiddetta ribellione dei Satsuma.
Nel 1872 Tokyo annunciò pubblicamente che stava abolendo il regno delle Ryukyu. Questo atto unilaterale, chiamato eufemisticamente “Disposizione delle Ryukyu” (Ryukyu shobun), avveniva esattamente cinquecento anni dopo il trattato con cui il re Satto sanciva la relazione tributaria con la Cina. Tale problema portò a negoziazioni tra Giappone e Cina, che interessarono anche Gran Bretagna e Stati Uniti, protratte per oltre vent’anni, fino a che le rivalità tra i due Paesi per le mire sulla Corea, sfociarono nella guerra sino-giapponese del 1894-95.
Nel frattempo l’ultimo re di Okinawa, Sho Tai, venne esiliato a forza a Tokyo nel maggio del 1879 ed Okinawa divenne ufficialmente una prefettura giapponese. Nonostante gli sforzi iniziali del governo di Tokyo che scelse di inviare nella nuova prefettura funzionari molto abili ed istruiti, gli abitanti di Okinawa mal sopportarono il posizionamento di estranei ai ruoli di comando, specialmente quando questi “rimpiazzi” venivano imposti con la forza e talvolta anche con l’incarcerazione di funzionari locali.
Con il passare del tempo anche la qualità dei funzionari inviati da Tokyo diminuì, in particolare nei gradi meno elevati della gerarchia. Una larga percentuale delle forze di polizia e dei burocrati di basso livello erano uomini di Kagoshima che non erano stati in grado di trovare impiego nelle zone di residenza dopo la ribellione dei Satsuma del 1877.
A peggiorare le cose, chi riceveva l’incarico di Governatore della Prefettura di Okinawa era spesso risentito per essere stato inviato in un luogo remoto e talvolta dava sfogo alla propria frustrazione contro i cittadini che avrebbe dovuto amministrare.
Fu durante questo periodo che si svilupparono pregiudizi poi diffusi in tutto il Giappone. Come nota George Kerr in «Okinawa: The History of an Island People»: “i Giapponesi che visitavano Okinawa per motivi di lavoro o per adempiere a particolari compiti tendevano, una volta tornati in altre prefetture, a diffondere storie di … cose bizzarre e non familiari … Il governo asseriva che la prefettura di Okinawa era parte integrante dell’impero giapponese ma agli occhi giapponesi non sofisticati … i modi e la lingua degli Okinawensi li poneva in una condizione a parte, classificandoli come rustici, cugini di seconda classe all’interno della nazione-famiglia giapponese” (pagg. 398-399).
Ora, anche di fronte a tali politiche e attitudini giapponesi, le opinioni tra gli abitanti del precedente regno delle Ryukyu riguardo al loro futuro status politico iniziarono a divergere in misura direttamente proporzionale all’inasprimento del confronto tra Tokyo e Pechino sul diritto di sovranità sull’arcipelago.
Gli intellettuali locali si divisero tra pro-Cinesi o “fazione degli ostinati” (ganko-to) e pro-Giapponesi o “fazione dell’illuminazione” (kaika-to). Sebbene chiaramente a favore del kaika-to, il governo Meiji era inizialmente riluttante ad opporsi al ganko-to, che esercitava ancora un’influenza economica e politica considerevole ed aveva un forte interesse nel mantenimento dello status quo.
Una conseguenza negativa di questa riluttanza sfociò nella ritardata adozione ad Okinawa delle riforme sulla terra e sulle tasse, già attivate nelle altre prefetture come elementi critici nel cosiddetto programma di modernizzazione. Come ha sottolineato lo storico linguista Rumiko Shinzato, questo ebbe l’effetto di ampliare il divario politico ed economico tra Okinawa ed il resto del Giappone. Le tasse ad Okinawa erano proporzionalmente più elevate che in ogni altra parte del Giappone e ciononostante gli Okinawensi non poterono inviare rappresentanti al parlamento nazionale, istituito con la costituzione Meiji del 1890, fino a ventidue anni dopo, nel 1912. La situazione nell’Okinawa dell’epoca Meiji è spesso messa in contrasto con quella di Hokkaido, dove il governo aveva speso denaro ed energia per lo sviluppo di un territorio vasto ma scarsamente abitato da una popolazione facilmente manipolabile, costituita da cacciatori e pescatori Ainu. Al contrario Okinawa aveva risorse naturali limitate ed una popolazione il cui grado di lealtà allo stato Meiji era percepito come problematico.
Assimilazione: imposizione dall’alto al basso
Sebbene il governo Meiji avesse rinviato le riforme economiche e la rappresentanza politica di Okinawa, un campo in cui l’assimilazione venne immediatamente e vigorosamente promossa fu l’istruzione, in particolare per quanto riguarda la lingua. I linguisti Shinzato ed Hokama Shuzen hanno diviso l’implementazione di tale politica in due fasi: un primo periodo in cui venne imposta dall’alto, durato dal 1879 al 1895, ed un secondo periodo di consolidamento dal basso, durato dal 1895 al 1937, terminato cioè a venticinque anni dalla fine del periodo Meiji. L’anno che fa da spartiacque tra i due periodi, vale a dire il 1895, marca l’inaspettata vittoria del Giappone nella guerra sino-giapponese, evento che porta al rapido declino della fazione pro-cinese ad Okinawa. A quel punto la maggior parte degli Okinawensi considera il Giappone come la nazione della crescita e delle maggiori speranze per il futuro.
Prima del 1895 la politica di assimilazione venne imposta quasi interamente da amministratori ed educatori dalla madrepatria, come suggerisce il termine “top-down” (dall’alto in basso). Includeva sforzi per scoraggiare i tatuaggi, sopprimere il ricorso ai guaritori spirituali yuta, ridurre l’influenza delle sacerdotesse locali noro, inserire gli dei locali nel pantheon gerarchico dello Shinto nazionale e censurare le danze kumi-odori che si riteneva contenessero materiale “pericoloso per la politica nazionale” o “ingiurioso per la morale pubblica”. La lingua restava però l’elemento cruciale. I dialetti della madrepatria e delle Ryukyu sono strettamente correlati da un punto di vista strutturale ma divennero mutualmente inintelligibili quando si scissero da un “dialetto madre” intorno circa all’anno 700 d.C.
Il governo Meiji considerava la standardizzazione del linguaggio (gengo doitsu) una politica importante che avrebbe in seguito esteso a tutto il Paese. Ma la situazione era vista come particolarmente urgente ad Okinawa poiché qui la popolazione utilizzava esclusivamente la lingua delle Ryukyu.
Il primo programma di standardizzazione del linguaggio nelle scuole pubbliche di Okinawa non fu un grande successo, in parte perché mandare i figli a scuola costituiva un pesante fardello per i contadini che contavano sul loro lavoro nei campi. In secondo luogo gli Okinawensi consideravano inizialmente il giapponese come la lingua degli stranieri e in particolare della classe di funzionari governativi ostili a loro e alla loro cultura. I bambini avevano paura degli insegnanti che provenivano dalla madrepatria, che a loro apparivano alieni, duri ed altezzosi. Ancora a quel tempo l’aristocrazia e la piccola nobiltà di Okinawa, cresciuta con i classici cinesi, non vedeva alcun valore nello studio del giapponese.
Il programma di standardizzazione suscitò inoltre proteste studentesche e rabbiosi editoriali sui giornali che lo definivano troppo incentrato sul linguaggio e sull’indottrinamento ideologico e del tutto privo di attenzione per altri argomenti considerati importanti, tra cui l’insegnamento della lingua inglese. I politici in madrepatria rigettarono completamente queste istanze, insistendo sul fatto che il perfetto apprendimento della lingua giapponese standard fosse essenziale per la corretta integrazione e per assicurare la lealtà degli abitanti di Okinawa come sudditi imperiali.
Che la promozione dell’assimilazione educativa, a partire dalla lingua, avesse più ampi obiettivi ideologici e politici venne così confermato da Ichiki Kitokuro, funzionario ministeriale: «Non abbiamo altro mezzo se non l’educazione per infrangere il modo di pensare ostinato degli abitanti di Okinawa ed integrarli alla civiltà delle isole della madrepatria [naichi]».
I ritratti dell’imperatore Meiji e dell’imperatrice (goshin’ei) furono introdotti nelle scuole di Okinawa nel 1887, prima che nelle altre prefetture. I leader militari giapponesi, che vedevano Okinawa come perimetro di difesa vulnerabile, consideravano gli Okinawensi come potenziali traditori a causa dei precedenti legami che il Regno delle Ryukyu aveva intrattenuto con la Cina.
Yamagata Aritomo e altri ufficiali militari di alto rango ispezionarono le scuole di Okinawa per essere certi che attraverso l’educazione si stesse facendo tutto il possibile per allontanare gli Okinawensi dalla Cina e avvicinarli al Giappone. In questo processo si fece spesso confusione tra quel che era cinese e quel che era okinawense, cosa che rafforzò lo zelo governativo nell’opera di sradicamento di quelle che erano considerate “usanze locali pericolose” attraverso una campagna forzata chiamata akushu haishi (eliminazione delle cattive abitudini). Per quel che riguarda poi la dicotomia tra Cina e Giappone nell’epoca Meiji, furono gli stesso Okinawensi che, di loro iniziativa, scelsero il secondo.
Assimilazione: consolidamento dal basso all’alto
La guerra sino-giapponese convinse molti Okinawensi che l’identificazione con la nazione vincente, che stava migliorando ricchezza e status, non sarebbe stata poi un’idea così sbagliata. Un primo effetto della guerra fu il declino, tra gli intellettuali di Okinawa, della fazione pro-cinese. Tra la popolazione era diffuso un ampio, se non profondo, sforzo di identificazione con il Giappone. I ragazzi cambiarono la loro pettinatura passando dal tradizionale ciuffo raccolto al taglio tattico divenuto popolare in madrepatria. Le donne iniziarono ad aggiungere il suffisso -ko al loro nome di battesimo e gli uomini adottarono la pronuncia kun per i loro nomi, che in precedenza venivano pronunciati con lettura più simile alla on [i kanji, o ideogrammi, possono avere una o più pronunce on, vale a dire vicine alla lingua cinese originaria, e una o più pronunce kun o giapponesi, N.d.T.]. Ad Okinawa, al contrario di quel che accadrà in Corea quattro decenni dopo, il cambio del nome fu un processo volontario.
In ambito giornalistico il quotidiano Ryukyu Shimpo, fondato nel 1893 e ancora oggi uno dei due quotidiani maggiormente diffusi ad Okinawa, sosteneva sin dai suoi primi editoriali che Okinawa avrebbe potuto progredire materialmente e socialmente solo se si fosse integrata totalmente con il Giappone. Un giornalista arrivò addirittura a scrivere: «dovremmo anche starnutire come fanno i Giapponesi». Lo Shimpo pubblicò articoli sulla storia e la cultura di Okinawa al fine di informare i lettori giapponesi, in particolare quelli che risiedevano sull’isola, e per dissipare pregiudizi e stereotipi. A quel tempo gli Okinawensi stavano accogliendo con entusiasmo la causa della standardizzazione del linguaggio, tanto che i linguisti parlano di periodo di “consolidamento dal basso all’alto”. Il testo del 1895, “Grammatica e dizionario della lingua delle Luchuan”, di Basil Hall Chamberlain, che evidenziava le relazioni tra le lingue giapponese ed okinawense, venne utilizzato come prova di etnia condivisa. L’anno seguente lo studioso Nakamoto Masaya pubblicò Okinawa goten (dizionario della lingua di Okinawa) con lo scopo preciso di aiutare gli Okinawensi a superare le interferenze che la loro lingua nativa opponeva allo sforzo di imparare il giapponese. Nakamoto scrisse nella sua introduzione che parlare una lingua comprensibile in tutto il Giappone era presupposto essenziale alla costruzione di una nazione potente.
Una risoluzione per promuovere la lingua giapponese venne promossa nell’ambito del Convegno di tutti i docenti di Okinawa del 1916. Tale risoluzione raccomandava che gli insegnanti si impegnassero non solo a parlare correttamente in giapponese ma anche che punissero gli allievi che parlavano la lingua delle Ryukyu a scuola. Nel 1910 furono gli stessi allievi della scuola media di Shuri, anticipando i loro insegnanti, a scegliere volontariamente di bandire la lingua delle Ryukyu nell’ambiente scolastico. Nello stesso anno, gli allievi della scuola media di Naha accettarono di adottare la punizione del cartello (batsu fuda), chiamata anche cartello del dialetto (hogen fuda), che consisteva nell’appendere un cartello di legno al collo degli studenti sorpresi a parlare la lingua delle Ryukyu all’interno degli edifici scolastici.
Portare il cartello di legno era considerata una vergogna e determinava l’abbassamento dei voti. Inoltre l’unico modo di liberarsi del cartello era quello di trovare un altro studente che stesse parlando nella lingua delle Ryukyu per passarglielo. Questa sorta di versione okinawense della “patata bollente” venne successivamente criticata in quanto favoriva il fare la spia, danneggiando lo sviluppo sociale dei bambini e minando la loro autostima.
Nonostante questi sforzi, iniziati in massima parte dopo il 1895 nella stessa Okinawa, gli Okinawensi continuarono a subire pregiudizi e discriminazioni in Giappone. La situazione si esacerbò poiché gli Okinawensi che cercavano istruzione e lavoro immigravano in massa in madrepatria dove il loro lavoro era ricercato ma dove le loro usanze, in qualche modo differenti, e la tendenza ad utilizzare la lingua nativa quando parlavano tra loro ne rendevano più difficile il controllo da parte dei supervisori.
Inoltre, quando le condizioni economiche nelle altre prefetture peggiorarono, intorno all’inizio del secolo, gli Okinawensi vennero spinti a cercare lavoro ovunque in Giappone. Fu durante questo periodo che iniziarono ad emigrare anche all’estero, in gran numero nelle Hawaii e nel Sud e Nord America. Ciononostante un buon numero di Okinawensi vennero accolti dai circoli artistici e letterari della madrepatria dove le loro opere vennero apprezzate per il carattere distintivo e, nel campo specifico della letteratura, per la loro prospettiva illuminante sul Giappone del tardo periodo Meiji.
Un’altra fonte di tensione derivò dalla coscrizione dei giovani Okinawensi nell’esercito giapponese. Essi vennero esentati per due decenni dalla Legge sulla Coscrizione del 1873 a causa dei dubbi persistenti sulla loro lealtà allo stato Meiji. Come risultato della vittoria del Giappone nella guerra sino-giapponese, alcuni Okinawensi iniziarono ad intraprendere carriere militari illustri, raggiungendo gradi elevati. Fu motivo di orgoglio quando una nave da guerra, comandata dal Capitano della Marina Imperiale Kanna Kenwa, nativo di Okinawa, portò l’allora principe Hirohito a Naha per una visita celebrativa di una giornata nel 1921, prima tappa di un viaggio che lo avrebbe portato in Europa. Sfortunatamente persisteva un diffuso pregiudizio tra le forze imperiali tanto che, durante la guerra sino-giapponese, alcuni Okinawensi che parlavano tra loro nella loro lingua nativa, vennero scambiati per nemici. Il fatto che i soldati imperiali accusassero gli Okinawensi di essere spie, in parte a causa della loro lingua, ebbe tragiche conseguenze anche cinquant’anni dopo, durante la battaglia devastante del 1945.
Gli effetti dell’assimilazione nel periodo antecedente la guerra
Come veniva vista in retrospettiva la politica di assimilazione del periodo Meiji durante le decadi che seguirono? Forse la considerazione più diffusa tra gli Okinawensi dell’epoca Taisho e della prima epoca Showa era quella del successo e del fatto che ora gli abitanti del piccolo arcipelago avrebbero dovuto essere accettati come membri a pieno titolo della nazione-famiglia giapponese. Gli Okinawensi risentivano soprattutto del fatto di essere continuamente equiparati agli abitanti delle colonie giapponesi, come Taiwan e Corea, e di altre minoranze oggetto di politiche di assimilazione. La loro indignazione portò talvolta ad una sorta di yatsuari (collera indiscriminata o ricerca di un capro espiatorio) tramite il quale chi è oggetto di pregiudizio cerca di migliorare il proprio status indirizzando il pregiudizio verso altre persone. Come sottolineava il Ryukyu Shimpo nell’aprile del 1903: “Equiparare gli Okinawensi con i barbari [seiban] taiwanesi e gli Ainu di Hokkaido significa considerare questi ultimi alla pari degli abitanti di Okinawa, che invece sono realmente giapponesi. Non importa quanto gli Okinawensi possano essere insensibili, non è possibile accettare questo tipo di umiliazione”.
Questo rabbioso editoriale fu innescato da una mostra organizzata nel 1903 a Osaka che era di fatto una sorta di museo umano (jinruikan). Come diffusamente pubblicizzato, questo “museo” metteva in mostra “esemplari viventi di popoli esotici”, Taiwanesi, Ainu e donne okinawensi nei loro costumi tradizionali. I giornali di Okinawa non obiettarono sulla disumanizzazione in sé, quanto piuttosto sull’inclusione degli Okinawensi, che l’autore dell’editoriale sottolineava essere totalmente giapponesi. Allo stesso modo gli intellettuali di Okinawa protestarono vigorosamente quando venne pubblicata la notizia di un piano per includere Okinawa sotto la giurisdizione del Governatore di Taiwan. Ancora, non era il colonialismo in sé ad essere messo in discussione, quanto l’idea di essere equiparati a coloro che non erano “veri Giapponesi”.
Gli effetti della politica di assimilazione e dell’ideologia era evidente anche nella ricerca etnografica su Okinawa, portata avanti da antropologi okinawensi e giapponesi. Un tema centrale nella ricerca di Iha Fuyu, fondatore dell’etnografia okinawense, e degli antropologi giapponesi Yanagita Kunio e Orikuchi Shinobu, era quella che considerava la cultura di Okinawa, in particolare nelle sue forme più antiche, di centrale importanza per la cultura dell’intero Giappone. I resti di antiche parole e toponimi giapponesi nel moderno dialetto delle Ryukyu, pratiche religiose locali originarie probabilmente della Micronesia e tecniche di lavorazione della ceramica okinawense, vennero identificate come esempi di “pura cultura giapponese” che, sopravvissuti ad Okinawa, erano sfortunatamente andati perduti nel miscuglio culturale del Giappone moderno. C’era naturalmente anche un aspetto negativo derivante da questa adorazione dell’antico. Considerare Okinawa come deposito per le reliquie del passato giapponese la etichettava automaticamente come arcaica.
La guerra del Pacifico e il periodo successivo
La più crudele delle tante ironie sulla guerra del Pacifico per gli Okinawensi, dopo anni di discriminazione in madrepatria dove si vedevano spesso negata la possibilità di lavorare e abitare, fu che essi videro nella battaglia di Okinawa un’opportunità per provare, una volta per tutte, la loro lealtà al Giappone e la loro completa assimilazione quali Giapponesi. Nei diari scritti proprio prima della battaglia dai ragazzi di Okinawa arruolati nei locali corpi di difesa (boeitai), essi esprimevano gioia per l’opportunità di dare prova dello “spirito di Yamato” e di onorare l’imperatore respingendo l’invasione dei “selvaggi” Americani.
I boeitaigakuto tai diedero la loro vita per prendersi cura dei feriti sul campo di battaglia. Questi sacrifici servirono solo a gonfiare il numero delle vittime di una causa tragicamente sbagliata. I soldati giapponesi ordinarono suicidi di massa ai civili okinawensi per preservare le scorte alimentari diminuite drasticamente mentre altri furono forzati ad uscire da grotte e cunicoli sovraffollati esponendosi al fuoco nemico. In quello che è probabilmente il più oltraggioso tradimento alla determinazione degli Okinawensi di essere assimilati, i soldati giapponesi, accecati dalla rabbia per la sconfitta, spararono a bruciapelo a migliaia di Okinawensi, talvolta solo per aver detto qualche parola nel loro dialetto, accusandoli di essere spie. In questa battaglia persero la vita oltre duecentomila abitanti di Okinawa.
La fine di quella guerra non concluse però le controversie sull’assimilazione. Portò solo all’ingresso di una nuova parte: gli Stati Uniti. I militari americani prolungarono il loro ruolo di occupazione ad Okinawa fino al 1972, vent’anni dopo la fine dell’occupazione della madrepatria giapponese, e ancora oggi continuano ad “occupare” vaste aree con le loro basi in quella che è, sfortunatamente per Okinawa, la miglior sede in tutta l’Asia per la permanenza di armi e truppe. Per mantenere l’uso di questi bastioni, i politici del Pentagono insistettero per quasi un quarto di secolo sull’importanza di mantenere un controllo amministrativo sulla maggior parte delle isole delle Ryukyu, cosa che portò a sequestri di terreni e negazione di diritti legali, oltre a numerosi disagi e umiliazioni. Infine l’opposizione locale, spesso con dimostrazioni pacifiche ma talvolta anche con l’uso della violenza, divenne così dirompente nel periodo della guerra del Vietnam che anche l’esercito americano fu forzato ad ammettere che l’amministrazione degli Stati Uniti era diventata dannosa per la loro missione, mettendo così a rischio l’utilità di quelle basi che avrebbe dovuto garantire.
Ma mentre il Pentagono stava ancora cercando di prolungare l’occupazione, l’intelligence militare e le agenzie di propaganda, come il Corpo di Controspionaggio Militare e la Sezione delle Pubbliche Relazioni, iniziarono una campagna vigorosa per convincere gli Okinawensi che essi non erano Giapponesi. Il governo americano stava quindi cercando di annullare gli effetti del doka seisaku con un’imposizione dall’alto in basso proprio come quella posta inizialmente in essere dal governo Meiji. La differenza fu però la totale assenza del “consolidamento dal basso in alto” da parte degli Okinawensi a questa campagna sbagliata, costata milioni di dollari ai contribuenti americani.
La campagna di “disassimilazione” venne perseguita principalmente per paura del successo del movimento per il ritorno alla sovranità giapponese, che aveva guadagnato considerevole seguito già dai primi anni cinquanta, cosa che avrebbe forzato i militari a confrontarsi con le politiche giapponesi molto più restrittive verso le basi americane, se non addirittura a doversene andare se il partito di opposizione fosse andato al potere a Tokyo. Le autorità americane di occupazione adottarono ufficialmente la parola “Ryukyuan” [abitante delle Ryukyu, n.d.t.], ampiamente mal pronunciato e scritto con ortografie errate come “Ree-yoo-kian,” “Ryoo-kyoo-ian,” o “Rye (come nel pane [rye letteralmente significa segale, n.d.t.])-yoo-kian”. Per supportare ideologicamente la campagna, l’esercito degli Stati Uniti finanziò la ricerca e la pubblicazione di versioni storiche ufficialmente approvate, che enfatizzavano l’invasione da parte dei Satsuma, valorizzavano l’immagine dell’antico Regno delle Ryukyu e sottolineavano gli atteggiamenti discriminatori da parte del Giappone, dopo la trasformazione di Okinawa in prefettura. Tale campagna portò occasionalmente anche alla censura della stampa e alla denuncia dei capi dell’opposizione, specialmente di quelli che spingevano per il ritorno sotto la sovranità giapponese, bollati come “comunisti”, etichetta che a dire il vero aveva un impatto più sugli Americani che sugli Okinawensi.
Gli Okinawensi si lamentavano del fatto che spesso gli Americani ripetevano loro quanto fossero fortunati ad essere stati liberati dall’oppressione del Giappone imperiale. Ma quando obiettavano sulle politiche di occupazione come l’esproprio delle terre e la negazione dei diritti legali, veniva loro risposto che erano il popolo di una nazione sconfitta e che gli Stati Uniti stavano, dopotutto, proteggendo loro ed il resto dell’Asia dal comunismo. In psicologia questo è noto come porre qualcuno in doppio vincolo.
C’era nella campagna americana almeno un aspetto apparentemente positivo, il finanziamento dei musei, delle biblioteche e delle mostre di artigianato culturale del Regno delle Ryukyu con i dollari dei contribuenti americani. Il Pentagono pagò addirittura per una stazione radio che avrebbe dovuto trasmettere solo in dialetto okinawense, evitando il giapponese standard. Sfortunatamente gli annunciatori e gli autori dovevano sforzarsi di trovare termini tecnologici moderni in una lingua che andava scomparendo per commentare le notizie del giorno. Per necessità pratiche dovevano a volte far ricorso a termini inglesi, o addirittura, orrore degli orrori, a parole giapponesi.
Nel periodo di occupazione militare americana, l’opposizione locale, formata in particolar modo da insegnanti di scuola, resistette alla campagna di “ryukyuizzazione” insistendo, come fecero fin dall’epoca Meiji, sul fatto che gli Okinawensi erano Giapponesi. La bandiera hi no maru (campo bianco con sole rosso), la cui esposizione era vietata dalla legge di occupazione americana tranne in occasione di particolari festività, divenne un simbolo di questa resistenza nel corso di innumerevoli dimostrazioni di protesta a supporto del ritorno sotto la sovranità giapponese. Ironicamente gli hogen fuda, cartelli punitivi, tornarono ad essere utilizzati nelle scuole e appesi al collo dei bambini sorpresi a parlare nel dialetto locale. La maggioranza degli Okinawensi supportava, in qualche modo, la lotta per tornare sotto il controllo della madrepatria (bokoku fukki). Anche quelli che non si univano attivamente al movimento continuavano ad affermare di essere Giapponesi e a considerare la campagna di “ryukyuizzazione” come propaganda per prolungare l’occupazione militare statunitense.
Nuovamente ri-assimilati
Lo sforzo del movimento diede i suoi frutti il 15 maggio 1972, data in cui Okinawa venne reinserita nella politica giapponese. L’assimilazione continua ad essere un problema anche oggi. Da una parte è considerata insufficiente a portare Okinawa agli stessi livelli di prosperità materiale del resto del Giappone. Le condizioni economiche locali sono migliorate segnatamente dal rientro ma il reddito pro capite di Okinawa è ancora solo il 70% di quello della madrepatria. Inoltre la prefettura è ancora forzata in maniera sproporzionata a sacrificare le sue terre e la qualità della vita per mantenere vaste basi militari americane. I tre quarti della presenza militare in tutto il Giappone sono concentrati sull’isola, grazie all’henkan kyotei, “accordo di reversione” del 1969 che ad Okinawa, sarcasticamente, viene chiamato henken kyotei o “accordo discriminatorio”.
Inoltre, in quella che a volte viene chiamata “occupazione secondaria”, le società giapponesi hanno acquistato proprietà di fronte all’oceano per costruire hotel di lusso e campi da golf, dove gli Okinawensi vengono impiegati come lavoratori di servizio per manager e clienti giapponesi, con i profitti che vengono trasferiti in madrepatria. Con la costruzione di resort ormai ovunque, a minacciare l’ambiente corallino dell’oceano che attrae i turisti, la marginalizzazione economica è vista come una sorta di cannibalismo più che come assimilazione.
Dall’altro lato l’assimilazione post-revisione è criticata anche per essere troppo dura nel richiedere conformità politica, culturale ed ideologica alla madrepatria. Gli sforzi del Ministero dell’Educazione per promuovere il patriottismo nelle scuole, attraverso l’esposizione della bandiera giapponese ed il canto dell’inno nazionale, ha suscitato rabbia e critiche, al pari del divieto di esporre la bandiera durante l’occupazione americana, da parte degli insegnanti e di coloro che vedono in tutto questo un ritorno delle politiche di assimilazione del periodo Meiji, finalizzate a fare degli Okinawensi “soggetti imperiali” (kominka). Questo risentimento è esacerbato della riluttanza, da parte del governo centrale, a riconoscere le atrocità del periodo della guerra, specialmente quelle commesse ad Okinawa. Gli insegnanti hanno inoltre richiesto che la storia e la cultura di Okinawa siano maggiormente presenti nei programmi di studio, anche se si sentono frustrati da un sistema educativo interamente finalizzato al superamento degli esami per entrare al college in cui tutto ciò che concerne Okinawa è praticamente assente.
Più di due decenni dopo il ritorno sotto il controllo giapponese, la disillusione locale rispetto alle politiche e agli atteggiamenti della madrepatria ha radicalmente trasformato l’immagine della hi no maru. Prima del 1972 la bandiera giapponese veniva utilizzata come simbolo di liberazione dalle imposizioni dell’esercito americano e come espressione della volontà di ri-assimilazione ai compatrioti giapponesi. Oggi, per molti Okinawensi, rappresenta un simbolo disprezzato del dominio e dell’aggressione passata e del continuo dominio da parte di Tokyo. Così, ad Okinawa, l’assimilazione – nei suoi diversi aspetti di promozione, resistenza, e “ricostruzione” – continua a suscitare dibattiti che ruotano intorno a dicotomie familiari quali etnia contro nazione, omogeneità contro diversità, e locale contro centrale. E poiché tali dibattiti si articolano vigorosamente in un ambiente ristretto, non vi è dubbio sul fatto che Okinawa sia terreno fertile per lo studio di queste problematiche.